Il valore del contesto e della materia

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Grafton Architects, vista progettuale per la Scuola di economia dell’Università di Tolosa, 2012.



Davide Turrini intervista Shelley McNamara e Yvonne Farrel, fondatrici dello studio irlandese Grafton Architects. Nelle parole degli architetti emerge chiara la visione di un progetto come risposta ad istanze sociali specifiche e di un’architettura responsabilmente legata al contesto ambientale e alla cultura materiale del luogo in cui sorge.

Davide Turrini: riferendovi al padiglione The Burren, che avete progettato per Pibamarmi alla scorsa edizione di Marmomacc, avete parlato di architettura come nuova geografia. Potete spiegare perché?



Shelley McNamara: quando Pibamarmi ci ha chiesto di progettare questo allestimento abbiamo scelto di sviluppare, anche a questa scala e in questo contesto particolare, il tema principale del nostro lavoro, cioè il rapporto tra architettura e geografia, o meglio il concetto di architettura come astrazione del paesaggio. Con questo padiglione abbiamo voluto inserire nella fiera un brano del Burren, un altopiano calcareo dell’Irlanda occidentale. Accanto alla suggestione del paesaggio, l’opera porta con se la lezione della scalinata di Casa Malaparte a Capri - che è come uno spezzone di roccia costruito dall’uomo e proiettato nel mare - e della bellissima scala del negozio Olivetti di Carlo Scarpa. Il padiglione doveva poi valorizzare alcune collezioni di elementi in marmo per l’ambiente bagno; quindi un tema specifico del design espositivo è stato quello del dialogo tra due pietre molto diverse, il marmo levigato degli oggetti e l’ardesia, con differenti trattamenti superficiali, per i volumi dell’allestimento.

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Grafton Architects, padiglione The Burren, Verona, 2012.



D.T.: qual è quindi, a vostro avviso, il rapporto tra costruzione e paesaggio, tra architettura e contesto?



Yvonne Farrel: se siamo pienamente consapevoli del fenomeno di crescita esponenziale della popolazione mondiale, del fatto che oggi la maggior parte delle persone vive in un contesto urbano densamente costruito, capiamo che ogni progetto, ogni edificio, deve essere prima di tutto un nuovo spazio di vita e di benessere per l’umanità. Quindi, quando parliamo di architettura come nuova geografia, non pensiamo soltanto ad aspetti formali, ad un disegno tracciato astraendo le linee di un paesaggio, ma intendiamo anche includere il concetto di sostenibilità di un progetto in relazione agli aspetti ambientali, climatici, culturali, sociali di un luogo specifico; dobbiamo considerare tutte queste cose in maniera interconnessa per dare risposte appropriate in termini di vocazione, spazialità e configurazione materiale di ogni singola architettura.

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Paulo Mendes Da Rocha, schizzo per la baia di Montevideo, 1998



D.T.: anche Mendes Da Rocha, architetto brasiliano con cui avete stabilito un dialogo ideale all’ultima edizione della Biennale di Venezia, ha focalizzato la sua attenzione sul rapporto tra architettura e natura; egli ha affermato ad esempio che la geografia è la prima architettura, che è una sorta di costruzione primordiale…



S.McN.: per noi il lavoro di Mendes Da Rocha è una notevole fonte di ispirazione; ecco perché abbiamo scelto di presentare la sue opere accanto alle nostre alla Biennale. Molte sue affermazioni sono di estremo interesse; prima tra tutte quella secondo cui l’architetto non ha soltanto la possibilità di costruire strutture, ma ha il potere di trasformare la natura. Il modo con cui Da Rocha parla di Venezia, ci permette di comprendere meglio questo concetto; egli infatti non si sofferma tanto sulla tradizionale immagine pittoresca di questa città, piuttosto ne sottolinea il valore di capitale di un “mondo immaginato”; per lui la bellezza di Venezia sta nell’idea di costruzione di un nuovo territorio. Con Da Rocha vogliamo quindi condividere la consapevolezza del ruolo dell’architettura nel modificare il paesaggio, investendo anche gli aspetti culturali e sociali di un territorio e di una comunità; tale consapevolezza anima in noi un grande senso di responsabilità nell’occupare e nel trasformare il mondo.

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Grafton Architects, gli interni relazionali e aperti al contesto dell’Università Bocconi a Milano, 2008.



D.T.: l’ampliamento dell’Università Bocconi di Milano ha segnato un passaggio importante nella vostra opera. Si tratta di un edificio emblematico dell’architettura dei Grafton Architects….



S.McN.: certo, è un’opera rappresentativa nel modo con cui cerchiamo di rispondere ogni volta, in modo nuovo e specifico, alle esigenze di un luogo. Si tratta di un’architettura ideata per Milano e crediamo che ora appartenga totalmente alla città; un edificio così non avrebbe avuto senso in nessun altro posto. Abbiamo imparato tanto da questa esperienza. Probabilmente tutto ciò che sappiamo sul concetto di città lo abbiamo imparato in Italia, in termini di storia e di contemporaneità; Milano del resto possiede una tradizione “eroica” di architetture contemporanee che ha influenzato notevolmente il progetto per l’Università Bocconi.

D.T.: in questi mesi state lavorando a due ulteriori progetti per istituzioni formative e culturali: la scuola di economia dell’Università di Tolosa e il campus UTEC dell’Università di Lima. Quali saranno i caratteri salienti di queste due opere?



Y.F.: crediamo che le istituzioni universitarie possano contribuire in maniera determinante alla costruzione dell’identità pubblica delle città; è straordinario poter concepire spazi in cui professori e studenti, ogni giorno, si riuniscono per elaborare concetti e per fare ricerca. Vorremmo che entrambe le architetture, a Tolosa e a Lima, si configurassero come “piattaforme di connessione”, favorendo le relazioni tra i fruitori all’interno e facendo sì che docenti e allievi acquisiscano una piena consapevolezza dei caratteri del contesto all’esterno. Ad esempio a Lima l’edificio è pensato per ricordare costantemente a chi sta dentro che l’oceano Pacifico è là, in fondo alla valle, e che la città, con i suoi dieci milioni di abitanti, si estende tutta intorno.

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Grafton Architects, schizzo e modello progettuale per il campus UTEC dell’Università di Lima, 2012.



D.T.: parliamo ora ai materiali della vostra architettura. Avete impiegato il laterizio, il cemento, la pietra; in modo semplice e coerente. Come li scegliete?



Y.F.: la scelta dei materiali è fondamentale e tale selezione deve avvenire, ancora una volta, in relazione alla storia costruttiva e ai processi di fabbricazione peculiari del luogo in cui operiamo. Ci vogliamo legare costantemente alla cultura materiale del contesto. A Milano, alla Bocconi, abbiamo impiegato il Ceppo di Grè per il rivestimento esterno e il marmo Bianco Lasa per gli interni, due pietre estremamente presenti nella tradizione costruttiva lombarda. A Tolosa stiamo utilizzando un mattone locale, in continuità con la tradizione del laterizio romano. Dall’interesse per come un materiale si produce e si mette in opera passiamo poi alla massima valorizzazione dei suoi aspetti sensoriali. Ciò che è veramente importante è la materialità dell’architettura, ciò che vediamo, ciò che tocchiamo.

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Grafton Architects, modello progettuale per il campus UTEC dell’Università di Lima, 2012.



D.T.: veniamo in chiusura ancora una volta al vostro rapporto con l’Italia. Siete stati spesso presenti alla Biennale di Venezia, all’ultima edizione avete vinto il Leone d’Argento; avete lavorato a Milano; avete visitato molte altre città e regioni. Cosa rappresenta per voi il nostro paese? Le città, l’architettura, il paesaggio…



S.McN.: da molti anni, ogni anno, veniamo in Italia; per lavoro e per visitare tanti luoghi diversi. Roma, Milano, Venezia, la Puglia: in ogni posto c’è qualcosa di straordinario da imparare. La scorsa estate sono stata a Siracusa; è stata una lezione che non dimenticherò mai in termini di stratificazione dell’architettura. Dalle rovine greche al barocco, in uno stesso palinsesto urbano, a volte in uno stesso edificio, si mescolano innumerevoli tracce di storie diverse. Ieri siamo stati a Mantova: ricorderò per sempre lo spazio interno del San Sebastiano di Leon Battista Alberti e la facciata di questa chiesa costruita come un brano musicale. Direi che tutti gli architetti hanno un grande debito verso l’Italia. Poi, nei nostri confronti, questo paese è stato molto generoso in termini di opportunità di lavoro; spesso quando parliamo in studio dell’esperienza della Bocconi la definiamo davvero come un “Miracolo a Milano”. 


a cura di Davide Turrini 



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