Nient'altro che materia e spazio
Nell’opera dei fratelli Mateus si legge «il desiderio di trasformare lo spazio in cosa concreta; il vuoto diviene materia prima dell’architettura»[1]. Con queste parole Gonçalo Byrne, descrive un dato primario della poetica architettonica di Manuel e Francisco Aires Mateus, suoi allievi che dal 1988 lavorano autonomamente, riuniti in uno studio associato. La formazione nell’ambiente della cultura architettonica portoghese contemporanea, contrassegnata da importanti personalità come quelle di Byrne, Siza, Tavora, e Souto de Moura non ha impedito ai Mateus di elaborare uno stile caratterizzato fin dagli esordi da un’evidente riconoscibilità, frutto di un’incessante e rigorosa ricerca sullo spazio – come sottolineato dalle parole di Byrne in apertura – e sulla materia.
Le opere dei due architetti di Lisbona sono così caratterizzate da forme scultoree che si stagliano pure e conchiuse in se stesse, accessibili soltanto attraverso rari tagli netti o sottili fessure. Il principio generatore di tali architetture è quello della continuità di superficie, di una piena omogeneità di stesure materiche che si estendono piatte, o si ripiegano, a creare corpi solidi, chiaramente leggibili come volumi di accentuata tridimensionalità o come semplici setti murari, sempre costruiti per comunicare un carattere di permanenza. Con grande frequenza le stesure parietali sono lapidee e sono realizzate in forma di rivestimenti pseudoisodomi, reiteratamente stratificati in senso orizzontale, a tratti interrotti da vuoti sensibilmente ombreggiati che accentuano il carattere geometrico della tessitura litica, che per i Mateus è pura stilizzazione contemporanea di una stereotomia muraria antica, salda e possente.
«Per me il muro di pietra è una delle più alte declinazioni architettoniche della materia, è ideale per definire e conchiudere lo spazio delle mie opere, che vedo come “contenitori di vita” destinati a durare. Voglio rapportarmi con la continuità della Storia e la pietra mi permette di farlo poiché resiste al trascorrere del tempo; stratificata nel dispositivo murario essa esprime un’idea di permanenza che mi sembra essenziale per la realizzazione di edifici significativi per dimensioni e destinazioni funzionali in rapporto alla città»[2].
È Manuel Aires Mateus, in una recente intervista, ad assegnare con queste parole un primato alla muralità litica, tema che con il fratello egli ha rielaborato più volte in realizzazioni complesse, pensate per trovare un rapporto di commisurazione con il contesto, affermando sì la loro presenza ma in una relazione dialogica con un intorno materiale precostituito o, piuttosto, con una certa “idea materica” di città. È il caso del Centro Culturale di Sines, vicino ad un antico castello, e del Rettorato dell’Università di Lisbona, calato nell’ampio tessuto della capitale illuminista. Entrambe gli edifici dimostrano che per i Mateus la materia è un elemento fondamentale di lavoro e, declinata dal punto di vista costruttivo, essa risulta imprescindibile per poter distinguere l’opera dall’intorno urbano o dal territorio aperto e, allo stesso tempo, per far sì che l’architettura inneschi una qualche forma di rapporto con il contesto.
Il Centro Culturale di Sines, il Rettorato di Lisbona, come anche i recentissimi edifici Laguna Furnas nelle Azzorre, rappresentano gli esiti più alti di quella ricerca condotta sul tema del valore plastico-volumetrico della materia e, al contempo, sulla spazialità interna vista come entità autonoma capace di condensare qualità ambivalenti ma non necessariamente contraddittorie: nel cuore delle architetture degli Aires Mateus si aprono infatti vani articolati e complessi, orizzontali o verticalizzati, unidirezionali o animati da più assialità di sviluppo centrifugo o centripeto.
Oltre il limite, dietro alle pareti che definiscono all’esterno l’edificio, viene rivelata così una spazialità ricca e seducente, delimitata da piani pavimentali e da soffitti su quote diverse, rischiarata da molteplici fonti di luce. «Si tratta di una ricerca “diretta, ossessiva, regolata”, che concentra la propria attenzione sul disegno del vuoto e sulla possibilità di rendere monumentale lo spazio interno lavorando sull’invenzione di luoghi inattesi e sulla difficoltà di percepirne le dimensioni reali»[3].
Ecco allora lo spazio, che unitamente alla materia va a comporre il binomio di elementi primari complementari, bastanti da soli ad alimentare il lavorio progettuale degli architetti. Se le opere di Manuel e Francisco non dimostrano la predilezione per una tipologia spaziale precisa, evidenziano invece una cura insistita per la chiarezza degli spazi, che vengono disegnati compiutamente dall’inizio alla fine; da quelli di maggiore rilievo a quelli più piccoli e residuali, essi sono studiati nelle dimensioni e nella morfologia in totale libertà creativa rispetto alle condizioni esterne e alla necessità di denunciare in facciata l’assetto della scansione interna dell’opera.
Emblematici in proposito sono gli edifici Laguna Furnas; si tratta di una serie di piccole costruzioni funzionali e di percorsi attrezzati per la fruizione turistica di una laguna termale incastonata in un habitat naturale di straordinario valore, dove l’orografia rocciosa e la vegetazione hanno una forza formidabile. La pietra vulcanica locale, impiegata dai Mateus per comporre tessiture rettificate e omogenee con cui rivestire i muri e le coperture degli edifici, ha conferito alle architetture l’aspetto di monoliti primigeni che ben presto, con la patina di alcune stagioni, sembreranno perdersi nella continuità del paesaggio. Ricercare una costruzione essenziale e sommessa, non ha significa imboccare scorciatoie nel processo progettuale tecnologico: tutta la materia litica è stata disegnata, ogni elemento costruttivo è stato studiato fin nei dettagli più minuti, come ad esempio le parti angolari o di bordo dei rivestimenti, o i cambi di quota e di pendenza delle stesure pavimentali esterne. Gli spazi interni ancora una volta assumono una sostanziale autonomia, sono interamente foderati di legno naturale e, al contrario del volto esteriore dell’opera, sono autoriali, tonali, perfettamente distinguibili.
La ricerca di una muralità litica continua, che si erge a delimitare un sistema complesso di spazi, è stata ribadita dai Mateus nel recente progetto per “Un Tempio per gli Dei di Pietra”, padiglione espositivo Pibamarmi realizzato a Verona in occasione della 45° edizione di Marmomacc. L’allestimento si è configurato come un blocco di pietra compatto e rettificato, tagliato da quattro fenditure di accesso agli spazi interni pensati come un insieme articolato di cavità concentriche. Ha preso corpo in questo modo una concatenazione di spazi riservati e gerarchici, separati da setti murari e pensati per proteggere e rivelare allo stesso tempo i monoliti delle collezioni di design Pibamarmi, che vivono un rapporto d’elezione con l’elemento liquido.
Nelle pareti la materia litica, levigata e monocromatica, si è stratifica in dispositivi che distillano le geometrie di remote opere murarie; negli elementi di design modellati nello stesso litotipo essa si è condensata in forme scultoree essenziali, incluse in spazi intimi e inusuali, serrati e profondi, spesso accessibili soltanto alla vista.
Nonostante la qualità di temporaneità insita nel tema progettuale, il padiglione appare come una ulteriore conferma della forte tensione dei Mateus verso una disciplina architettonica contrassegnata dal valore della permanenza, poiché accanto ai dati materiali tangibili, anche le idee costruttive e spaziali - se espresse compiutamente e con forza - sono destinate a durare, almeno nella memoria. A confortare tale giudizio sono ancora una volta le parole recenti di Manuel Aires Mateus: «Un padiglione espositivo non è un tema da rifiutare in quanto effimero, anzi, più di un edificio completo, dotato di fondazioni e coperture, può rappresentare un’occasione per esprimere idee architettoniche importanti, che si possono imprimere con forza nella memoria del visitatore. Questo è stato il mio pensiero quando ho ricevuto l’incarico per realizzare il padiglione Pibamarmi; mi sono detto che il “tempo del padiglione” era in effetti circoscritto a pochi giorni ma il “tempo dell’idea del padiglione” poteva essere lunghissimo. Ecco allora che ho disegnato un’opera sì temporanea ma fortemente architettonica; credo che nella dimensione minima di questo allestimento la materia e lo spazio, i miei unici elementi di lavoro, si esprimano in modo estremamente intenso»[4].
di Davide Turrini